A distanza da due anni e mezzo dalla loro prima esibizione romana, la band albionica torna nella Capitale durante il tour per promuovere ‘Big Swimmer’, fortunato ed ispirato nuovo lavoro uscito quest’anno, che li sta portando in guro oer l’Europa.
I King Hannah si stanno confermando ulteriormente come una delle formazioni più affascinanti e suggestive della scena alternative rock contemporanea, nonostante il concerto abbia palesato un approccio forse un po’ troppo compassato sul palco, aspetto che a tratti mi ha abbastanza spiazzato, considerando che parliamo di una band in giro da pochissimi anni. Escludendo questo, il live è stato un’esperienza comunque intensa, dominata da atmosfere sognanti, chitarre riverberanti e una voce avvolgente, caratteristiche distintive della band guidata da Hannah Merrick e Craig Whittle.
La serata si è aperta con con l’esibizione piacevole di Joe Gideon, con suoni che ci riportano quasi ad una versione più sghemba del primo Robyn Hitchcock, per poi dare spazio agli attesissimi King Hannah, con un un’atmosfera intima e raccolta, mentre il pubblico si è lasciato avvolgere dal suono ipnotico di brani come ‘Somewhere Near El Paso‘ e ‘John Prine on the Radio’, dove la voce di Hannah si staglia con forza e malinconia sopra le linee di chitarra dilatate di Craig.
La band ha proseguito con una scaletta che ha pescato ampiamente dal suddetto nuovo lavoro, mantenendo un equilibrio perfetto tra passaggi dolcemente malinconici e improvvise esplosioni sonore.
Uno dei momenti più intensi del concerto è stata la title-track ‘Big Swimmer’, che ha creato un crescendo emotivo palpabile tra il pubblico, mentre brani come ‘Suddenly, Your Hand’ e ‘New York, Let’s Do Nothing’ hanno rivelato tutta la maestria del gruppo nel combinare indie rock, slowcore e influenze blues.
La performance di “Crème Brûlée” ha poi fatto emergere un’anima quasi cinematografica, con i suoi arrangiamenti ricchi e suggestivi che sembrano provenire direttamente dalla colonna sonora di un film noir contemporaneo.
Il Monk, con il suo spazio raccolto, si è rivelato il contesto perfetto per la dimensione live della band, consentendo un dialogo intimo e coinvolgente tra artisti e pubblico. I King Hannah hanno saputo coinvolgere altresì con una versione trascinante di ‘State Trooper’ del Boss e, durante i bis, addirittura un commiato natalizio (!) con ‘Blue Christmas’ di Doye O’Dell, lasciando la platea sospesa in un’atmosfera rarefatta e sognante.
L’accoglienza del pubblico romano è stata calorosa, facendo registrare un sold-out, confermando quindi il legame speciale che la band sta consolidando con l’Italia durante il loro tour europeo.
L’ipnosi elettronica dei KVB: Un viaggio tra luce, ombra e suono
In un 2024 in cui le esperienze live cercano costantemente nuovi modi per avvolgere il pubblico, i KVB continuano a rappresentare, pur senza inventarsi nulla di particolarmente nuovo ed elaborato, una discreta certezza nella loro capacità di trasformare il palco in un mondo sospeso tra passato e futuro. Il duo britannico, noto per la sua fusione di shoegaze, elettronica e post-punk, ha costruito nel corso degli anni un’identità scenica che va oltre il semplice concerto: il loro spettacolo è un’ipnosi audiovisiva, un luogo in cui i sensi si fondono e la realtà diventa malleabile.
La sala è buia, un nero denso e quasi palpabile. D’improvviso, una serie di fasci luminosi si accende, geometrie pulsanti che sembrano respirare a ritmo della musica. Le visual proiettate dietro al duo non sono semplici sfondi, ma un’estensione del loro suono: figure astratte, glitch digitali e frammenti di città lontane si sovrappongono in un fluire continuo, creando un’estetica che richiama tanto l’avanguardia cyberpunk quanto il minimalismo cinematografico. Le immagini si fratturano e si ricompongono, mentre la luce si riflette sulle superfici dei sintetizzatori e sulle sagome quasi statiche di Nicholas Wood e Kat Day, che, con pochi gesti misurati, governano il magma sonoro.
I suoni si propagano come onde: bassi profondi e vibranti che penetrano nello stomaco, riverberi che si allungano fino a sembrare infiniti e ritmiche sintetiche che scandiscono il tempo con un rigore quasi meccanico. Nonostante l’apparente freddezza del suono “sintetico”, c’è una palpabile energia umana che pulsa sotto la superficie. Il dialogo tra synth e chitarra, un tratto distintivo del duo, assume dal vivo un potere quasi rituale: la chitarra sferza l’aria con feedback che sfumano in echi lontani, mentre i sintetizzatori modellano un universo sonoro denso e malinconico.
Kat Day, dietro ai suoi strumenti e ai visual, è una presenza ieratica. La sua voce, eterea e distante, emerge talvolta come un sussurro, un richiamo spettrale che si dissolve nell’immensità del suono. I suoi visual agiscono come un ponte tra il pubblico e l’universo dei KVB: si alternano paesaggi urbani in bianco e nero, costellati di linee luminose, a sequenze caleidoscopiche che ricordano i lavori di artisti sperimentali come quelli della scuola berlinese. È come trovarsi di fronte a una pellicola che si consuma e si rigenera, una memoria visiva collettiva che si ripete, ma sempre con un dettaglio nuovo.
Il pubblico è quasi ipnotizzato, in un equilibrio perfetto tra contemplazione e movimento. I corpi oscillano lentamente sotto l’effetto della ritmica costante e ripetitiva, come trascinati da un’onda invisibile. I KVB non cercano il contatto diretto, non incoraggiano il caos: il loro live è un invito a perdersi in uno spazio interiore, a lasciarsi attraversare dalla loro combinazione di luce e suono.
Quando lo spettacolo termina, l’ultima immagine proiettata si dissolve lentamente come un residuo di memoria: un paesaggio alieno o una metropoli deserta, difficile dirlo con certezza. Il pubblico resta fermo ancora per un istante, come risvegliato da un lungo sogno a occhi aperti. I KVB, ancora una volta, hanno creato un’esperienza più che un concerto, una soglia verso un mondo parallelo dove le immagini e le note si distorcono al ritmo del loro suono senza tempo.