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Kamasi Washington incanta Roma

Testo: Fabio Babini
Foto: Fabio Arboit

Roma, Auditorium Parco della Musica – un concerto che, se possibile, ha superato anche le  più alte aspettative, quello andato in scena nella maestosa Sala Santa Cecilia, dove Kamasi Washington ha portato la sua musica immensa, stratificata, eppure sorprendentemente accessibile. Un’esperienza intensa, tanto per chi lo segue da tempo quanto per chi si affacciava per la prima volta sul suo universo sonoro. E questa volta, il sassofonista losangelino non era semplicemente in tournée: stava accompagnando dal vivo ‘Fearless Movement’, il suo nuovo lavoro discografico, confermandosi come una delle voci più potenti e ispirate del jazz del nuovo millennio.

La serata è iniziata con un momento di riflessione collettiva. Kamasi, con tono pacato ma fermo e delle vestigia degne di Sun Ra, ha chiesto al pubblico un minuto di silenzio per ricordare Papa Francesco, scomparso il giorno precedente. Un gesto che ha subito avvolto la sala in un’atmosfera di raccoglimento e che, in qualche modo, ha segnato anche il tono emotivo dell’intera performance: profondo, denso, con venature di spiritualità e tensione umanistica.

Poi, lentamente, le luci si sono abbassate e i primi suoni hanno cominciato a intrecciarsi. Sul palco, al suo fianco, una formazione ormai storica, affiatata come una famiglia: Rickey Washington – padre di Kamasi – ha alternato sax soprano e flauto, portando un lirismo quasi etereo; Ryan Porter al trombone ha scolpito frasi solide, capaci di dare profondità e struttura; Cameron Graves, alle tastiere, ha seminato scintille tra jazz, prog e funk; Tony Austin, alla batteria, ha tracciato traiettorie ritmiche imprevedibili, che hanno spinto avanti la musica senza mai appesantirla. A completare il paesaggio sonoro, la presenza scenica – e sonora – del DJ ha aggiunto una dimensione elettronica sottile ma costante, rendendo il tutto ancora più contemporaneo.

I brani tratti da ‘Fearless Movement’ sono stati il cuore pulsante dello spettacolo. Si tratta di un album che segna, se non una svolta, almeno un’evoluzione nel percorso di Washington: più orientato al groove, con strutture meno espanse rispetto ai lavori precedenti, ma senza perdere quella capacità quasi sinfonica di fondere le influenze più disparate. Sul palco, queste nuove composizioni hanno preso vita con una forza che nessuna registrazione potrebbe restituire. Il jazz come punto di partenza, certo, ma subito dilatato, contaminato, scosso da energie che provengono dal funk, dal soul, dalla fusion anni ’70, dall’hip hop e persino da certo rock sperimentale.

E proprio qui sta la grandezza di Washington: non si limita a citare, ma riesce a rielaborare. Nel tessuto dei brani si riconoscono echi dei Weather Report, delle cavalcate vertiginose della Mahavishnu Orchestra, del romanticismo elettrico di ‘Return To Forever’, ma anche il Miles Davis più esplorativo, quello di ‘Bitches Brew’ e ‘On the Corner’. Non mancano fugaci allusioni a Frank Zappa, ai momenti più astratti di Prince o a visioni sintetiche che rimandano alla scuola afro-futurista di Coltrane o le pagine di matrice blues cosmica di Archie Shepp. Ma tutto è filtrato da una visione lucida, personale, attuale. Una musica che guarda al passato solo per proiettarsi in avanti, senza compromessi né concessioni.

Nonostante la densità della proposta, l’equilibrio sul palco è stato impeccabile. Washington si è confermato un leader generoso, lasciando ampio spazio ai suoi compagni di viaggio per momenti solistici che non erano semplici intermezzi, ma parte integrante dell’evoluzione emotiva dei pezzi. Ciascun musicista ha brillato, ma sempre al servizio della narrazione collettiva. La band è apparsa come un unico organismo, coeso, dove ogni strumento è sia voce autonoma sia tessera di un mosaico più ampio.

Nel fluire del concerto, due brani fuori dalla tracklist del nuovo album hanno rappresentato un ponte con il passato. ‘Vi Lua Vi Sol’, dal celebrato ‘Heaven & Earth’, ha catturato il pubblico con la sua spiritualità morbida e intensa, una carezza sonora che ha avvolto la sala in una sospensione rarefatta. E poi, a chiudere la serata, il bis atteso e travolgente: ‘Re Run’, dal monumentale ‘The Epic’. Un brano che, dal vivo, ha assunto le dimensioni di un rito collettivo, una liberazione energetica dove ogni nota sembrava un’invocazione, un grido, una danza.

La Sala Santa Cecilia, con la sua acustica perfetta e la sua aura solenne, si è trasformata per una sera in un tempio laico, in cui il pubblico – attento, partecipe, rispettoso – ha potuto immergersi totalmente in questo vortice musicale. Nessuna distrazione, solo ascolto e vibrazione. È questo il dono più grande che Kamasi Washington riesce a offrire: la possibilità di vivere la musica come una forma di elevazione, non solo estetica ma anche umana.

In un’epoca spesso frenetica, in cui l’attenzione è merce rara, un concerto come questo ci ricorda la potenza ancestrale dell’arte dal vivo. Kamasi Washington non è soltanto un jazzista: è un narratore universale, un architetto di ponti tra culture, un cercatore di verità attraverso il suono. A Roma, per qualche ora, ci ha permesso di abitare il suo universo. E ne siamo usciti trasformati.

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