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Intervista ai Colbhi sul loro disco

Gigantografia di piccoli sospiri” è disponibile su tutte le piattaforme digitali e in formato fisico.

Il prossimo live è fissato per il giorno 27 maggio al Circolo Orchidea di Santa Margherita Ligure.

“Gigantografia di piccoli sospiri” è un album dalle sonorità trasversali: il viaggio dell’ascoltatore si apre su paesaggi ampi e fitti, su altri rarefatti e spogli. L’elettronica avvolge un rock graffiante, caratteri dance seguono ballate intime. L’album contiene 10 tracce, nate a partire dalla brace di improvvisazioni, dialoghi sonori tra Osvaldo Loi, Federico Fantuz e Stefano Bolchi. Le musiche incontrano i testi di Daniela Bianchi e Stefano Bolchi, che in alcuni brani hanno intrecciato le loro parole. La produzione artistica si avvale della collaborazione con il produttore Giulio Gaietto che ha curato missaggio e mastering dell’album ed impresso la sua presenza al sound generale.

In occasione dell’uscita del disco d’esordio “Gigantografia di piccoli sospiri” (Lilith Label), abbiamo avuto il piacere di intervistare Colbhi, un progetto collettivo che nasce nel 2020 dall’incontro di Stefano Bolchi con Osvaldo Loi, Federico Fantuz e l’autrice genovese Daniela Bianchi.

Ciao e benvenuti su 100decibel, parliamo sùbito del progetto collettivo Colbhi. Come vi siete ritrovati a suonare insieme?

Tutto è partito dalle sessioni di improvvisazione che ci sono state tra me, Osvaldo Loi e Federico Fantuz. Noi siamo fratelli musicanti da tempo: abbiamo suonato insieme nella band genovese Edgar e lavorato con Angela Baraldi alle musiche per lo spettacolo teatrale “The wedding singers”. L’improvvisazione è per ognuno di noi uno spazio importante, crediamo che possa succedere qualcosa di interessante dalla non preparazione, dal libero e non programmato fluire dei suoni.  Così, da tempo, condividiamo questi momenti. Da queste ore di dialoghi sonori sono state raccolte parti che ci apparivano come delle bozze di brani. In seguito, sono comparsi i primi testi, alcuni scritti da Daniela Bianchi, altri da me (Stefano Bolchi), altri ancora scritti da entrambi, a quattro mani.

Che messaggio volete lanciare con la vostra musica?

Quello che viene scartato è un elemento prezioso, nasce intimamente, porta con sé il mistero della diversità e permette di percorrere nuove strade. È la rivoluzione.

Parliamo del nuovo album “Gigantografia di piccoli sospiri”. Che sonorità sono presenti?

Il sound ha come matrice un rock anglosassone. Ci sono riferimenti anche alla canzone d’autore, a tratti anche ad un pop anni 80. Accanto alle chitarre elettriche sono stati utilizzati arpeggiatori, synth e ritmiche elettroniche. 

C’è un filo conduttore che lega i brani del disco?

Il mistero potrebbe essere un “fil rouge” che attraversa i brani dell’album. Il mistero che lega e slega le relazioni che ci sono sia tra gli esseri umani sia tra gli uomini e la natura.

Perché avete scelto “Dark ballad” come singolo di lancio del vostro nuovo lavoro discografico? Abbiamo scelto Dark ballad come singolo perché porta con sé una particolare intensità: c’è una sinergia tra musica, il testo, il videoclip ed il cantato, frutto dell’incontro con Paolo Benvegnù.

Come è nata la collaborazione con Paolo Benvegnù?

Dark ballad ci ispirava all’ascolto un’atmosfera rarefatta e lontana. Per il testo il mio pensiero fu presto rimandato a qualcosa scritto da William Blake. Sentivamo dentro al pezzo una voce profonda e mistica… ed è risultato spontaneo sia a me che a Fantuz fare il nome di Paolo Benvegnù. Ne parlammo poco dopo con l’amico produttore e musicista Marco Olivotto che si rivelò un efficace connettore astrale: ebbe il modo di fare ascoltare il brano a Paolo, che lo trovò vicino alle sue corde. Paolo è stato molto generoso: qualche mese dopo, abbiamo ricevuto le sue tracce di voce che circondavano la mia nel cantare il testo di Blake.  Aveva dato al brano una veste nobile e mistica.

Dark ballad” è accompagnato dal videoclip ufficiale. C’è qualche aneddoto curioso, accaduto durante le registrazioni del video che volete raccontarci?

C’è stato un periodo lo scorso ottobre in cui volevo fare delle riprese ai cavalli del monte Fasce. È un monte che si affaccia sul mare di Genova costellato di antenne delle telecomunicazioni. Avevo già incontrato lì dei cavalli che circolavano in libertà. Mi sembrava interessante avere delle immagini che potessero evocare il rapporto tra natura e cultura. 

Così una mattina presto andai sul monte, feci qualche ripresa alla sommità dove crescono le antenne e ai loro piedi trovai una meravigliosa sorpresa: c’erano sei cavalli sdraiati sul crinale. Sembrava aspettassero. Uno pareva osservare l’antenna sulla cima, un altro si dondolava al vento, e uno cantava. Sono stato due ore con loro, in silenzio.

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