C’è qualcosa che accade solo quando le luci si abbassano e il silenzio prende il posto del brusio. È in quell’istante che il tempo comincia a rallentare. Nella Sala Petrassi dell’Auditorium capitolino, la sera si è aperta su una soglia invisibile: chiunque varcasse quel confine non stava semplicemente entrando a un concerto, ma in un altro spazio mentale. Un luogo rarefatto, scolpito dalla musica di Roberto Cacciapaglia, il quale sta affrontando con successo questo Time To Be Tour, a seguito dei riscontri più che lusinghieri ricevuti da ‘Invisible Rainbows’, suo ultimo lavoro in studio.
Il Maestro meneghino gradisce dialogare col pubblico, a volte spiegare alcune sfumature importanti della sua musica – si lascia andare, ad esempio, ad una distesa ma sentita digressione sugli armonici del pianoforte – ma in fondo gli basterebbe anche solo il tocco delle dita sul piano e un universo che si dispiegava in silenzio. È difficile descrivere esattamente cosa si provi davanti a quella musica: non intrattiene, non distrae, non cerca di convincere. Ti accoglie. Ti attraversa. E lentamente, quasi senza accorgertene, ti ritrovi dentro qualcosa che somiglia molto a una preghiera laica.
Cacciapaglia non suona per riempire lo spazio. Al contrario, lo scava, lo svuota, lo rende ricettivo. Ogni nota che nasce dal suo strumento sembra trattenere il respiro prima di dissolversi nell’aria, come se fosse cosciente del suo potere. I tasti d’avorio, nelle sue mani, non sono meri oggetti materiali, ma un’estensione del pensiero, un mezzo per comunicare l’indicibile.
Attorno, la sala si è fatta culla. Le poltrone rosse, il legno caldo delle pareti, l’assenza di orpelli scenici: tutto concorreva a mettere a fuoco l’essenziale. L’architettura, da sempre contenitore neutro, diventava qui alleata della musica. Lo spazio ascoltava con noi. Non c’erano schermi, immagini, effetti. Solo luce soffusa e suono puro, per mezzo del pianoforte al centro del proscenio e dei suoi due collaboratori, ovvero una violoncellista (anche al violoncello elettrico) e un sound designer, per così dire, alle prese con lievi percussioni sintetiche e accennati pattern elettronici, a integrarsi quasi sullo sfondo e mai invadenti.
La peculiarità del linguaggio di Cacciapaglia sta nel suo abbracciare la modernità senza rinnegarne il mistero. Le sue composizioni si muovono al confine tra la tradizione colta e una sensibilità quasi mistica, dove l’elettronica non è un’invasione ma un respiro in più. I suoni sintetici non rompono l’equilibrio: si fondono con il timbro acustico, ne diventano eco o premonizione. Eppure, niente è mai freddo o meccanico. Ogni vibrazione è carica di intenzione.
Dal vivo, tutto questo si amplifica. Il rapporto tra artista e pubblico non è frontale: si crea un cerchio invisibile in cui ci si riflette l’uno nell’altro. I silenzi, tra un brano e il successivo, non erano pause, ma atti pieni di significato. Nessuno tossiva, nessuno scrollava lo smartphone. Era come se la sala stessa respirasse al ritmo delle dita del Maestro. Un’attenzione collettiva, quasi sacra.
Il vero miracolo di questa musica è che non dice, ma suggerisce. Non mostra, ma risveglia. L’ascoltatore non viene guidato, ma accompagnato. Le immagini che suscita non sono mai uguali per due persone diverse. Per qualcuno un paesaggio lunare, per altri un ricordo d’infanzia. Per altri ancora, semplicemente un vuoto benefico in cui lasciarsi cadere.
Quando tutto è finito, il pubblico ha reagito come si fa dopo un sogno che non si vuole dimenticare: in piedi, ma in silenzio, quasi con pudore. Gli applausi sono arrivati dopo un tempo sospeso, non come liberazione, ma come gesto d’amore. E mentre le luci tornavano a illuminare le file di sedili, ciascuno sembrava portare con sé qualcosa di immateriale, un seme che germoglierà altrove.
Roberto Cacciapaglia non offre semplici esibizioni. I suoi concerti sono finestre spalancate su una dimensione più profonda dell’essere. Non si esce migliorati, forse, ma certamente più consapevoli. E in un mondo che corre, avere il coraggio di fermarsi per “essere”, come suggerisce il titolo del suo ultimo progetto, è già un atto rivoluzionario.