Nell’ambito della rassegna Jazz Evidence, il Monk di Roma è stato teatro di un concerto che ha sospeso la percezione temporale, trasformando la serata in un’esperienza musicale di pura trascendenza. Shabaka Hutchings, figura di spicco della scena jazz contemporanea, ha presentato un progetto ambizioso, destinato a esplorare il confine tra jazz, ambient, e musica ancestrale. Sul palco, ha lasciato il sax con cui sovente ci delizia coi suoi sublimi progetti (Sons Of Kemet e The Comet Is Coming, senza dimenticare gli Ancestors) e per abbracciare strumenti più arcaici, concentrandosi su un clarinetto e una collezione impressionante di flauti. Questa scelta inusuale ha infuso alla serata un tono mistico, una connessione con tradizioni musicali antiche, ma portate nel presente con un’energia intima e fortemente emotiva.
Un Ensemble Sospeso tra Elettronica e Armonie Arcaiche
Oltre a Shabaka, la formazione comprendeva un pianista dalla grande versatilità, che ha saputo dare al live una consistenza musicale varia e profonda. Con una mano affondava negli accordi jazz del pianoforte, offrendo al pubblico una solida base armonica, mentre con l’altra si immergeva nelle frequenze del minimoog, lo strumento elettronico che ha portato una ventata di sonorità ambient e modulazioni quasi psichedeliche. Questa alternanza tra il piano e il minimoog non era solo un gioco di stili: i due mondi, quello acustico e quello elettronico, si mescolavano creando un dialogo ipnotico, con sonorità che sembravano svelare l’essenza stessa della musica, un rituale sonoro antico ma reinventato, in cui le texture digitali e i toni nostalgici si combinavano in modo sorprendente.
Le Arpiste: Due Voci Ancestrali in Dialogo
A completare l’ensemble, due arpiste sul palco hanno aggiunto un tocco sacrale e ultraterreno. Non era la classica arpa da orchestra, bensì uno strumento versatile, piegato alle esigenze di una performance che cercava sonorità nuove. Insieme a Shabaka, le arpiste hanno dato vita a tessiture armoniche che trascendevano le connotazioni temporali, ricreando quasi l’impressione di un coro primitivo, un’evocazione sonora di tempi e luoghi remoti, fuori dalla dimensione terrena. Le loro armonie si sovrapponevano a quelle dei flauti, in un dialogo continuo che ha ricordato i canti e le tradizioni spirituali di antiche culture, ma rivisitato in chiave moderna.
Il Ritmo della Contemplazione
Shabaka non ha proposto una musica ritmica nel senso tradizionale del termine, ma piuttosto un flusso ipnotico, in cui ogni nota era un respiro, un passo nel viaggio verso una sorta di trance collettiva. I brani si susseguivano l’uno dopo l’altro senza soluzione di continuità, portando il pubblico sempre più in profondità dentro un universo sonoro parallelo. L’assenza di una struttura rigida ha favorito la percezione di uno spazio sospeso, dove ogni suono diventava parte di una cerimonia, un rito musicale dedicato all’ascolto attento e profondo. I momenti di silenzio, così come i passaggi più intensi, assumevano una loro particolare importanza, in una dinamica che accarezzava l’anima, e richiamava un senso di sacralità.
La Voce dei Flauti di Shabaka
La serata ha trovato il suo apice nella performance dei flauti del musicista londinese. Questi strumenti di antica ascendenza, che per secoli hanno rappresentato il legame tra uomo e natura, nelle sue mani diventavano veicoli di ricerca spirituale. Con estrema delicatezza, passava da un flauto all’altro con disarmante eleganza, esplorando le gamme timbriche e modulando il suono in un crescendo che sembrava collegare il pubblico a qualcosa di intangibile. La forza ipnotica del suono dei flauti ha creato una dimensione intima e al tempo stesso universale, in cui ogni nota diventava un richiamo all’essenza stessa della musica e della natura umana.
Conclusione: Oltre il Concerto, un Viaggio Interiore
La performance di Shabaka al Monk ha superato le aspettative di un semplice concerto jazz. È stata una vera e propria esperienza sensoriale e spirituale, dove ogni strumento e ogni interprete contribuivano a creare un rito collettivo che trascendeva la forma tradizionale del concerto. Il polistrumentista inglese, con la sua scelta di strumenti antichi e il suo approccio unico, ha aperto una finestra verso un mondo musicale che sembrava appartenere a un tempo lontano, ma che si proiettava anche verso il futuro, fondendo antico e moderno in una sintesi che ha fatto vibrare le corde più profonde dell’anima.
La serata al Monk si è conclusa con un lungo, fragoroso applauso, non solo di apprezzamento ma di riconoscenza, per un musicista che ha saputo trascinare il pubblico – che ha risposto davvero numeroso, anche in un (assai gradito) orario pomeridiano domenicale – in una dimensione altra, dove la musica diventa un linguaggio universale, una ricerca continua di connessione e bellezza. In un mondo così frenetico, quella di Shabaka è stata una lezione di lentezza e ascolto, un invito a riscoprire il potere curativo del suono, e a lasciarsi trasportare, almeno per una sera, fuori dal tempo.